Questa mattina, su un treno qualsiasi, si è consumata una scena che racconta molto della relazione educativa contemporanea. Un bambino di circa nove o dieci anni spiegava alla madre le dinamiche della sua classe: i voti, i compagni, il comportamento delle insegnanti. Un racconto vivo, dettagliato, a tratti preoccupato. La madre ascoltava attentamente, ma ogni parola del figlio veniva immediatamente registrata, giudicata, talvolta ingigantita.
Ad ogni descrizione il genitore domandava: “E perché quella bambina è la preferita?”, “Perché il maestro ti tratta così?”, come se dietro ogni situazione scolastica ci fosse un’ingiustizia da smascherare o un colpevole da identificare. Non una domanda su cosa il figlio avesse fatto o provato, nessuna curiosità sul suo comportamento o sulle sue eventuali responsabilità. Solo la ricerca immediata di un “altro” da accusare: il compagno, l’insegnante, il contesto.
Il rischio dell’educazione alla colpa esterna
Questa breve scena racchiude un fenomeno che molti insegnanti, psicologi ed educatori osservano quotidianamente: la crescente difficoltà, nei bambini, di riconoscere la propria parte nelle situazioni che vivono. Una sorta di analfabetismo della responsabilità.
Quando un genitore, spesso in modo involontario, si schiera costantemente dalla parte del figlio contro il mondo, manda due messaggi impliciti ma potentissimi:
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Qualcuno ti sta facendo un torto.
Se qualcosa va storto, la causa è fuori da te. -
Tu non devi cambiare nulla.
Cambiare è compito degli altri: del compagno, della maestra, del sistema.
Il bambino osservato in treno mostrava già queste dinamiche interiorizzate. Ogni racconto era costruito per dimostrare che la responsabilità degli eventi era esterna: “il prof non capisce”, “quel compagno è favorito”, “la maestra tratta meglio gli altri”.
Nessun accenno al proprio ruolo, nessuna riflessione metacognitiva, nessuna possibilità di apprendere dall’errore — perché l’errore, agli occhi del bambino, è degli altri.
L’effetto specchio del genitore
I bambini costruiscono la propria lente interpretativa del mondo attraverso lo sguardo degli adulti. Quando un genitore:
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interpreta ogni evento in chiave di ingiustizia subita,
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alimenta sospetti e confronti,
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si focalizza più sugli altri che sul figlio,
sta senza volerlo offrendo un modello di lettura costante: “tu sei vittima, l’altro è responsabile”.
Il problema non è difendere il bambino — che in molte situazioni ha davvero bisogno di essere tutelato — ma difenderlo sempre, anche quando avrebbe bisogno di essere accompagnato a guardarsi dentro, a chiedersi “cosa ho fatto?”, “cosa posso migliorare?”, “cosa posso imparare?”.
Privarlo di questa possibilità significa sottrargli uno dei mattoni fondamentali della crescita emotiva: l’autoresponsabilità.
Responsabilità non significa colpa
È importante ricordarlo: educare alla responsabilità non significa colpevolizzare. Al contrario, significa:
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aiutare il bambino a riconoscere la sua parte nelle situazioni;
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dargli strumenti per comprendere le conseguenze delle sue azioni;
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insegnargli che si può sbagliare senza perdere valore;
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rendere l’errore un’esperienza da cui trarre competenze, non vergogna.
Quando invece gli adulti sostituiscono questa funzione con il giudizio verso gli altri, il bambino non solo non impara a gestire il proprio comportamento, ma rischia di sviluppare un atteggiamento costante di sospetto e rivalità.
La scuola come specchio sociale
La classe, per un bambino di dieci anni, è il primo microcosmo sociale reale: lì si sperimentano le differenze, le regole, i conflitti, le prime relazioni significative con adulti che non sono familiari.
Interpretare questo spazio solo attraverso la lente della competizione (“chi è il preferito”), del favoritismo o della colpa esterna impedisce al bambino di sviluppare competenze che serviranno per tutta la vita: cooperazione, tolleranza, capacità di chiedere spiegazioni, negoziazione.
Cambiare narrazione: qualche esempio semplice
Quello che un genitore può fare, anche in una conversazione sul treno, è cambiare il tipo di domande:
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“E tu come ti sei sentito?”
(favorisce la consapevolezza emotiva) -
“Cosa hai fatto tu in quella situazione?”
(porta il bambino a riconoscere il proprio ruolo) -
“Cosa pensi che potresti provare la prossima volta?”
(apre allo sviluppo di strategie) -
“Hai parlato con la maestra di questa cosa?”
(promuove autonomia e comunicazione)
Sono domande che non negano il racconto del bambino, ma lo arricchiscono.
Conclusione: un viaggio che educa
La scena del treno è durata pochi minuti, ma ha raccontato molto di come, oggi, i bambini costruiscono il proprio rapporto con la responsabilità.
La strada verso l’autonomia non passa dal difenderli da ogni cosa, ma dal permettere loro di guardarsi dentro, con coraggio e senza paura.
A volte, basta una conversazione diversa per cambiare il modo in cui un bambino impara a stare al mondo.
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